La mancanza d’amore e la deviazione del sentimento d’inferiorità

Lungi dal voler ridurre la genitorialità ad un manuale, su almeno un punto, possiamo convenire con grande facilità: questo non può che riguardare, il riconoscimento del proprio figlio.

L’atto per eccellenza

Lungi dal voler ridurre la genitorialità ad un manuale, ad un insieme di regole preordinate, su almeno un punto, possiamo convenire con grande facilità; ovvero su ciò che non può che rappresentare il compito vitale, l’inderogabile, l’atto per eccellenza: il riconoscimento del proprio figlio. In effetti l’atto genitoriale, il primo e più importante, non può che riguardare e rientrare nella dialettica riconoscimento/restituzione: riconoscere il figlio attraverso l’accoglienza del suo grido e restituirgli un’esperienza che compensi la nuova condizione in modo – per dirla con Winnicott – sufficientemente buono.

Questo rappresenta il compito vitale del genitore: fornire al figlio un’esperienza di senso attraverso l’offerta di uno spazio psichico e sentimentale. Uno spazio che possa accoglierlo, includerlo; e che fondamentalmente gli rimandi che la sua vita non è un “caso”, ma un desiderio voluto che ha cambiato la visione, l’immagine del mondo. È il primo atto indispensabile, se ricordiamo che la vita – soprattutto infantile – acquisisce senso solo attraverso l’Altro; solo attraverso l’allogamento nella vita dell’Altro.

Il sentimento d’inferiorità

Tenendo fermo il punto appena esposto, adesso, puntiamo la nostra attenzione su ciò che costituisce il nucleo caldo della teoria adleriana: il sentimento d’inferiorità. E cerchiamo, dello stesso, di coglierne il doppio binario.

Alfred Adler ci insegna che tale sentimento non è affatto patologico, anzi. È la condizione strutturale, ontologica, obiettiva, con la quale il bambino viene al mondo: “Si deve tuttavia tener presente che tutti i fanciulli si affacciano alla vita in uno stato d’inferiorità e che la loro sopravvivenza è legata al sentimento sociale che li accomuna e che li circonda. Se consideriamo poi che essi traggono, dal fatto di essere piccoli e ancora maldestri, l’impressione di essere inadatti alla vita, dobbiamo concludere che un sentimento d’inferiorità più o meno radicato sussiste sempre alla base di ogni esistenza psichica” (Adler, 1994, p. 71).

Dunque ogni essere umano, “affacciandosi alla vita”, deve fare i conti con l’inferiorità. Il bambino è inadeguato, manca di strumenti fisici e cognitivi per potersela cavare. Ed è compito dell’ambiente fornire ciò di cui ha bisogno per trasformare questo stato di cose. Ma è proprio qui, proprio in questo compito dell’ambiente che v’è il rischio di una deviazione. Seguiamo la definizione che Parenti dà del sentimento d’inferiorità: “Nell’infanzia il sentimento d’inferiorità è una costante e naturale condizione d’inadeguatezza e disagio, dovuta a obiettive insufficienze di ordine fisico, comportamentale e conoscitivo nei confronti degli adulti e dell’ambiente in genere“(Parenti, 1983, p. 14). Prosegue: “Quando l’ambiente gli fornisce apporti favorevoli, il bambino conquista in modo lento e graduale una posizione di parità, superando il sentimento di inferiorità nella sua forma infantile” (ibidem).

Dunque v’è chiaramente una responsabilità da parte dell’ambiente, dei genitori, nel fornire “apporti favorevoli”, strumenti, possibilità di una linea-guida, per passare da una condizione di naturale inferiorità ad una di maggior sicurezza.

È importante ricordare che, pur fornendo ciò di cui v’è bisogno, ugualmente il sentimento d’inferiorità ci accompagnerà per tutta la vita. In effetti, è ancora Adler a dirci che il sentimento d’inferiorità non è mai del tutto superato. Non esiste fase della vita in cui questo sia eliminato, obliterato.

E allora la questione circa il problema della vita diventa non tanto come trascendere – nel senso di un completo superamento – l’inferiorità, quanto come passare costantemente da una condizione di “minus” ad una di “plus”; come scivolare pervicacemente da una situazione di inferiorità ad una di superiorità. La modalità di risposta a questo problema, dipende dallo stile di vita del soggetto: e per comprenderlo, dobbiamo tornare necessariamente ai primi anni dell’infanzia e agli “apporti favorevoli” offerti dall’ambiente.

È chiaro che gli elementi – come suggerisce F. Parenti (1983) – che possono accentuare il sentimento d’inferiorità sono tra i più diversi e disparati (un’inferiorità d’organo ad esempio, o le condizioni culturali/razziali/economiche). Ciò che in questo contesto ci interessa, però, è il punto esposto poc’anzi. Se da un lato non è possibile esaurire l’arduo compito del genitore in un insieme preordinato di comportamenti e atteggiamenti, dall’altro non possiamo non riconoscere nell’elemento introdotto – il desiderio dell’Altro -, il punto precipuo, ineliminabile, imprescindibile, per qualsiasi azione educativa degna di questo nome. Non è scontato che questo ci sia, tutt’altro. La sua mancanza, costituendo un difetto nel punto di partenza, è ciò che generalmente produce problemi. È come se, eludendo quel primo atto, non si creassero le condizioni buone, sane, favorevoli, per affacciarsi con serenità al mondo. Come se la mancanza di quegli “apporti favorevoli”, osteggiasse l’ingresso nel mondo attraverso un doppio velo, uno più del necessario, e non consentisse di posarsi – seguendo ancora Adler – sul lato utile della vita.

Conclusione

La mancanza del desiderio come desiderio dell’Altro, i suoi effetti disastrosi, possiamo riscontrarli con grande facilità. Il desiderio dell’Altro concerne fondamentalmente la domanda d’amore e noi tutti sappiamo cosa comporta il suo rifiuto: una caduta, una mancanza d’appigli; una vita che di fatto è gettata nel vuoto, nel non-senso. La vita umana si alimenta sin da subito del pensiero e della considerazione dell’Altro. La sua esclusione è ciò che veicola fondamentalmente il messaggio di non-appartenenza, di una non-importanza rispetto all’oggetto e dunque rispetto al mondo. Questa immagine di inutilità rispetto a se stessi è ciò che influenza, rende probabile, crea le condizioni per la deviazione del bambino, perché non lo aiuta nel passaggio dal “minus” al “plus”; anzi, intensifica il suo sentimento d’inferiorità, che se non troverà vie alternative – magari attraverso successivi incontri – da seguire, si convertirà con tutta probabilità in un complesso. È questo ciò che bisogna rilevare con chiarezza: la mancanza della presenza dell’Altro, il sentire di non appartenere, il rifiuto di una collocazione, insomma, l’elusione della domanda d’amore, è ciò che produce un’immagine di insignificanza rispetto al proprio sé, che, se introiettata, getta le basi per la prima caduta e la conversione del naturale sentimento d’inferiorità in un patologico complesso.

Bibliografia

  • Adler A. [1927], La conoscenza dell’uomo, Tr. it. Newton Compton, Roma 1994.
  • Parenti F, La psicologia individuale di Alfred Adler, Astrolabio – Ubaldini, Roma 1983.